LE ORIGINI
All’origine dei popoli che in epoca storica si trovavano insediati
nell’Italia centro-meridionale sono le migrazioni. La tradizione,
riferita dagli scrittori antichi, vuole che i Sabini, situati nel cuore
dell’Italia centrale, praticassero il ver sacrum (lo primavera
sacra), la cui descrizione ci è pervenuta da Strabone,
da Festo e da altri autori antichi: i Sabini, in momenti di pericoli o
di calamità naturali, quali guerre, epidemie, carestie, solevano
dedicare al dio Marte tutto ciò che nasceva nella successiva primavera;
i bambini nati in tale periodo non venivano immolati, ma allevati come
sacrati (consacrati) e, raggiunta lo maggiore età, dovevano
lasciare la loro tribù alla ricerca di nuove terre guidati da un animale
sacro, stabilendosi nel luogo che si pensava l’animale avesse indicato.
I primi sacrati, secondo la tradizione, erano capeggiati da Comio
Castronio e partirono in settemila verso il sud sotto la guida di un
bue. Il luogo prescelto da questi divenne poi la culla della loro
nazione e dal bue prese il nome di Bojano. Sono questi i futuri Sanniti.
Questa tradizione, che presenta varianti non sostanziali tra le varie
versioni, avvalora lo tesi secondo cui quei popoli che oggi vengono
definiti umbro-sabellici e che si estendevano in tutta la zona
medio-adriatica, da mare a mare in corrispondenza dello Campania e a sud
fino alle aree interne della Calabria, discendevano dallo stesso ceppo,
quello umbro-sabino, alcuni in forma diretta, come i Sanniti, altri in
forma indiretta. Questi popoli, a riprova della comune discendenza,
parlavano varietà dialettali dello stessa famiglia linguistica, quella
‘italica’ o ‘osco-umbra’. Dalla tradizione del ver sacrum si
può anche ricavare che tali movimenti avessero sia una funzione rituale
ed espiatoria, in rapporto all’evento al quale si doveva far fronte, sia
una motivazione socio-economico dovuta allo sovrappolazione e al bisogno
di nuove terre.
È probabile che tale pratica fosse in qualche modo legata allo
spostamento stagionale delle greggi transumanti. Si può ipotizzare anche
che le primavere sacre iniziate forse già nell’età del bronzo
nell’ambito delle comunità di pastori-guerrieri dell’Appennino, si siano
protratte per centinaia di anni e che abbiano costituito una forma
pacifica di assestamento dei popoli in ambiti territoriali sempre più
definiti. Riti molti simili a quelli delle primavere sacre non erano
solo dei Sabini delle epoche pre-protostoriche, ma venivano praticati
anche in epoca storica presso i Celti della Gallia Cisalpina e talvolta
presso gli stessi Romani.
IL POPOLO E IL TERRITORIO
Il territorio , era abitato nei tempi preromani da popolazioni di stirpe
sannitica: i Sanniti Pentri ed i Sanniti Frentani.
I Sanniti definivano se stessi con il nome di Safineis e
Safinìm ero il loro territorio; dai Romani erano chiamati
Samnites e con Samnium si indicava il paese da essi abitato;
dai Greci erano definiti Saunitai e Saunitis era il
Sannio. I termini Sabini, Sabelli, Samnites, Safineis sono legati
da un preciso nesso etimologico, avendo in comune la radice indoeuropea
sabh-, che nei dialetti latini si evolve in sab- (Sabini, Sabelli,
quindi Samnites e Samnium)
ed in quelli osco-umbri in saf- (Safineis, Safinim). Sabini e
Sanniti erano dunque imparentati anche nel nome. Gli antichi utilizzavano
come sinonimi i termini Sabelli e Samnites; entrambi avevano una
duplice accezione: una, più ampia, riferita al carattere etnico, usata per
definire tutti i popoli di lingua osca, separati geograficamente e
istituzionalmente ma della stessa origine; in questo senso oggi si
preferisce il termine Sabelli per indicare nel loro insieme Sanniti,
Frentani, Peligni, Vestini, Marsi, Lucani, ecc.. L’altra accezione, più
ristretta, è riferita all’entità politico-amministrativa del Samnium;
in senso ancora più restrittivo Plinio intendeva per Samnites
soltanto la tribù dei Pentri. Oggi come Samnites si indicano
comunemente gli abitanti del Sannio, cioè nel loro insieme Pentri,
Carricini, Caudini e Irpini. Il loro territorio non aveva sbocchi sul mare
in nessuno dei due versanti e si estendeva dal fiume Sangro fino, grosso
modo, all’alto corso dell’Ofanto. I Carricini, la tribù meno popolosa,
erano stanziati tra il Sangro ed il Trigno; i Pentri, popolo montanaro
forte e temibile, occupavano il cuore del Sannio attorno al Matese e si
estendevano nella zona corrispondente all’attuale Alti e Medio Molise e
all’alta valle del Sangro in Abruzzo; i Caudini erano i più occidentali,
insediati ai margini della pianura campana attorno al medio corso del
Volturno; gli Irpini occupavano la parte più meridionale del Sannio, tra
l’alto Ofanto e l’alto Calore.
I popoli sabellici, dunque, non costituivano una nazione unitaria, ma
erano organizzati autonomamente in territori ben definiti: a nord del
Sannio si trovavano nuclei minori quali Marsi, Vestini, Peligni, ecc.; a
sud di esso erano i Lucani, dai quali si staccarono i Bruzi (secondo la
tradizione “schiavi ribelli”); ad ovest, nell’attuale Campania, si erano
insediati popoli della stessa origine; ad est, lungo la costa adriatica
tra il Sangro ed il Fortore, erano i Frentani.
Queste popolazioni nel corso del tempo trovarono modo di collegarsi tra
loro in rapporto agli interessi politici ed economici che avevano in
comune nei diversi momenti; ad esempio nel IV secolo a.C. esisteva una
temibile lega sannitica volta a contrastare il crescente pericolo romano.
L’organizzazione del territorio ha alla base i pagi, le unità
territoriali che nel loro insieme costituiscono la touto.
Nell’ambito del territorio di ciascun pagus, del territorio della
touto e infine dell’insieme di ogni touto sono dislocate
le funzioni in relazione alle esigenze delle comunità: i vici (i
villaggi), che nel loro insieme costituiscono il pagus; gli
oppida e i castella, cioè luoghi montani fortificati, di varie
dimensioni in relazione alle pertinenze, che costituiscono un sistema via
via più complesso in rapporto al loro ambito di azione territoriale, e che
sono a dominio dei villaggi, delle vie di comunicazione, delle aree più
aperte e bisognose di tutela; i santuari, le cui dimensioni e la cui
diffusione sono determinate dall’entità della comunità di cui sono al
servizio (santuari della touto, santuari dei pagi,
santuari dei vici); i tratturi, le vie delle greggi transumanti
nonché vie di comunicazione in senso lato, che attraversano ampi territori
e che superano i confini di ogni singola touto.
LE
CITTA' DEI SANNITI |
AECLANUM |
AESERNIA |
AEQUUM TUT. |
ALLIFAE |
AQUILONIA |
AUFIDENA |
BENEVENTUM |
BOVIANUM |
CAIATIA |
CARIFAE |
CASINUM |
CAUDIUM |
CLUTURNUM |
CLUVIAE |
COBULTERIA |
COMINIUM |
COMPSA |
CORFINIUM |
DURONIA |
FAGIFULAE |
FISTELIA |
HERCULANEUM |
HISTONIUM |
INTERAMNA L. |
IUVANUM |
LARINUM |
PALLANUM |
PALOMBINUM |
RUFRAE |
ROTAE |
SAEPINUM |
SANNIA |
SATICULA |
TERVENTUM |
TIFERNUM |
TREBULA |
TREVICUM |
VELIA |
VENAFRUM |
VIBINUM |
LO STATO SANNITICO
Alla base dell’organizzazione politica e territoriale di ciascuna tribù
sannitica c’è la touto (lo stato), con un governo di tipo
repubblicano su basi democratiche. Ogni touto aveva un centro che
fungeva da capitale e che rappresentava il fulcro amministrativo
dell’intera touto. Bovianum era la capitale dei Pentri. Larinum
era la città principale dei Frentani. A capo della touto c’era il
meddix tuticus, il magistrato supremo dotato di poteri
giurisdizionali, militari e religiosi, deputato a rappresentare il popolo
nel rapporto con la divinità. La carica di meddix era elettiva ed
annuale. Ogni touto era divisa in un certo numero di pagi
(distretti territoriali), che costituivano le sottounità amministrative su
base territoriale, semi indipendenti nelle questioni sociali, agricole e
religiose. Esistevano inoltre altre magistrature inferiori con competenze
specifiche, anch’esse elettive; nelle iscrizioni sono menzionati gli
edili, i censori, i pretori, ecc. Dovevano dunque esistere sia un
consiglio, probabilmente a carattere consultivo, sia un’assemblea, con
diritto di eleggere i magistrati.
Se questa organizzazione ci è sufficientemente nota per i Sanniti Pentri,
per i Frentani la mancanza di documentazione impedisce per ora di poter
avanzare ipotesi al riguardo.
Di un buon numero di magistrati supremi ci sono pervenuti i nomi tramite
gli autori antichi, ed in particolare quelli che trattano delle guerre
sannitiche; una documentazione più abbondante in merito è ora offerta dai
testi epigrafici, cronologicamente riferibili soprattutto al II° secolo
a.C. Di grande ausilio ai fini della ricostruzione di elenchi dei sommi
magistrati in successione e degli stemmi delle singole famiglie sono i
bolli laterizi di una officina pubblica, da localizzare nella piana di
Bojano. Le tegole riportavano l’indicazione dell’anno di fabbricazione
mediante l’indicazione abbreviata della carica (m (eddix) t(uticus)
seguita dalla formula onomastica del magistrato, generalmente con il
prenome, il gentilizio ed il prenome paterno. Dai gentilizi è possibile
enucleare, quali più ricorrenti, gli Staii, i Decitii, i
Papii, gli Egnatii, ecc.
LE GUERRE SANNITICHE
Nella prima metà del IV secolo a. C. Sanniti e Romani erano le due
maggiori potenze in Italia, entrambe in espansione; tra i due popoli lo
scontro era inevitabile, convergendo gli interessi di entrambi in zone
strategicamente ed economicamente di grande importanza: la valle del fiume
Liri, ricca di risorse agricole e di giacimenti minerari di rame e di
ferro nei Monti della Meta che la dominano a nord-est, e la Campania,
terra fertilissima e popolosa che nei tempi remoti era stata anch’essa
oggetto delle migrazioni attraverso le primavere sacre ma la cui
popolazione, a contatto con la civiltà greca ed etrusca, si era ormai
allontanata dagli usi e costumi dei Sanniti.
La causa occasionale dello scoppio delle ostilità fu offerta dall’assalto
dei Sanniti al piccolo popolo dei Sidicini e quindi ai Campani, e dal
conseguente intervento di Roma. Dal 343, anno di inizio della prima guerra
sannitica, al 304, anno in cui ebbe termine la seconda, i due popoli si
fronteggiarono con alterne vicende; i Romani, nel tentativo di entrare nel
Sannio attraverso la via che da Capua conduce a Benevento, dovettero
subire la disfatta ignominiosa delle Forche Caudine (321), ma riuscirono
infine a penetrare nel cuore del Sannio fino alla capitale Bojano, che fu
presa neI 305. La pace conseguente fu durissima per i Sanniti e segnò la
fine delle loro aspirazioni sulla valle del Liri e sul mare: essi
mantennero l’indipendenza ma furono costretti a sacrificare al controllo
romano sia la valle del Liri che il territorio ad ovest dell’Appennino.
Nel frattempo i Romani avevano portato avanti una accorta politica di
accerchiamento del Sannio stringendo alleanze con Apuli e Lucani. I
Frentani da quel momento, si prestarono, in qualche modo, a fiancheggiare
la politica di Roma, allontanandosi così dagli altri Sanniti e seguendo un
proprio percorso sia in politica estera che come organizzazione interna.
Nei 297 a.C. i Sanniti riuscirono a formare una forte coalizione insieme
ad Etruschi, Galli Senoni, Umbri, Lucani, popoli tutti minacciati
dall’espansionismo romano e preoccupati di difendere la propria
individualità statale. Nella battaglia di Sentino, del 295, definita la
"battaglia delle nazioni”, si decisero le sorti della penisola: le perdite
degli alleati furono disastrose: vi trovarono la morte circa 25.000 uomini
e tra questi lo stesso valoroso condottiero Gellio Egnazio. I Sanniti, da
soli, continuarono la guerra per altri quattro anni, ma alla fine furono
costretti a chiedere la pace; essi continuarono a mantenere l’indipendenza
e quasi tutto il loro territorio così come era stato delimitato alla fine
della seconda guerra sannitica, ma dovettero accettare l’alleanza con
Roma; come alleati rimasero fedelissimi al fianco dei Romani quando
Annibale invase l’Italia.
LA LINGUA DEI SANNITI
“Aliquanto ante lucem ad castra accessit (L. Volumnius consul)
gnarosque Oscae linguae exploratum quid agatur mittit": "(il console
L. Volumnio)
un
poco prima dell’alba si avvicinò all’accampamento (dei Sanniti) ed inviò
alcuni che conoscevano la lingua osca per spiare che cosa stesse
accadendo” (Livio X, 20, 8).
Anche noi, come i Romani, indichiamo la lingua parlata dai Sanniti con il
nome di “osco”: è simile al latino, dal quale si distacca soprattutto
nella fonetica e nella morfologia, oltre che nell’ortografia. Pur essendo
di formazione più recente, si mantiene assai più conservativo del latino
che ha subito un’evoluzione più marcata e veloce per le trasformazioni
sociali, politiche ed economiche che hanno caratterizzato il mondo romano.
L’osco trovò una forma scritta solo relativamente tardi: l’alfabeto osco
nazionale deriva da quello etrusco, opportunamente modificato, e si formò
in seguito ai contatti tra i Sanniti e gli Etruschi della Campania, nel
corso dell’espansione italica verso la costa tirrenica nel V secolo; non
venne tuttavia adottato in maniera generalizzata prima della metà del IV.
Non sempre le epigrafi osche utilizzano i caratteri dell’alfabeto
nazionale: in Lucania e nel Bruzio veniva comunemente usato l’alfabeto
greco, mentre l’alfabeto latino è l’unico utilizzato nei testi di Peligni,
Marrucini, Vestini, Marsi, Volsci e Sabini, raggiunti molto presto
dall’influenza romana. I Frentani nel III-II secolo a.C. utilizzavano sia
l’alfabeto osco che quello latino, come testimoniano alcuni graffiti su
vasi di quest’epoca.
Non ci sono notizie né ci rimangono testi di una letteratura in lingua
osca: l’unica forma letteraria attestata è la fabula atellana,
una sorta di commedia dell’arte che, introdotta anche a Roma, vi ebbe una
particolare fortuna tra il Il ed il II° secolo a. C.
Mancando la letteratura, la nostra conoscenza dell’osco deriva soprattutto
dalla documentazione epigrafica. L’iscrizione più lunga è la Tabula
Bantina, della prima metà del I° sec. a.C., che riporta la
costituzione della città di Bantia. L’altro grande monumento in lingua
osca è il Cippo Abellano, un trattato fra le città di Nola e di Abella,
scritto nell’alfabeto nazionale. Una testimonianza di rilievo è la
cosiddetta tavola di Agnone, proveniente dal territorio di Capracotta,
dove è descritta l’organizzazione di un santuario e le cerimonie che vi si
svolgevano durante l’anno. Vanno inoltre ricordate le numerose iscrizioni
dal santuario di Pietrabbondante. Altre iscrizioni, graffite su vasi o
impresse su tegole, si rinvengono un po’ ovunque nei siti di epoca
sannitica, soprattutto nel santuario di Campochiaro e nell’abitato di
Monte Vairano. Altre iscrizioni, ore scomparse, ci sono pervenute nelle
citazioni dell’epoca del rinvenimento; tra queste quella relativa ad una
statua di terracotta raffigurante Minerva, rivenuta nell’Ottocento a
Roccaspromonte ed ora conservata a Vienna.
I CULTI
Non è ancora possibile tracciare un quadro sistematico e completo della
religione e dei culti presso i Sanniti: sono scarsi a questo riguardo sia
i dati delle fonti, sia quelli più propriamente archeologici: anche dei
numerosi santuari noti ignoriamo quasi sempre la divinità alla quale erano
dedicati e le modalità del culto ivi celebrato.
Riveste perciò un particolare interesse il testo della cosiddetta Tavola
di Agnone, una piccola lastra di bronzo (cm. 28 x 1 6,5), trovata nel
secolo scorso nel territorio di Capracotta, la quale riporta sulle due
facce la serie completa dei riti e delle cerimonie di culto da svolgersi
in un recinto sacro con una serie di altari; il santuario era dedicato a
Cerere e ad altre divinità ad essa collegate ed era espressione di una
popolazione fortemente legata alla terra ed allo sfruttamento agricolo del
suolo. Anche altri santuari simili si trovavano nel territorio dei Sanniti
Pentri. A Gildone, ad esempio, nel secolo scorso fu individuata un’area
sacra che restituì elementi relativi alla decorazione architettonica del
tempio e molti ex voto di terracotta, ma non vi sono elementi per poter
avanzare ipotesi sulla divinità ivi venerata; analogamente, a San Giovanni
in Galdo c’era un tempietto e molti ex voto – soprattutto ceramica,
lucerne e monete – ma nessun elemento è stato trovato che sia di indizio
del culto specifico; entrambi, ad ogni modo, sono santuari rurali,
probabilmente anch’essi collegati a divinità in qualche modo della terra,
e, in essa, della fertilità. Una divinità femminile, della fecondità e
della fertilità. era anche quella venerata nel grande tempio situato in
località San Pietro a Sepino, lungo il percorso che dalla piana conduceva
sull’altura di Terravecchia. Poco si può dire di un probabile santuario in
cui era venerata Minerva: la sua statua di culto, a grandezza quasi
naturale, fu ritrovata nell'Ottocento a Roccaspromonte.
Se il contatto con la cultura greca introdusse presso gli Italici le
divinità olimpiche, queste rimasero quasi sempre dei semplici nomi che si
sovrapposero agli dèi italici, senza modificarne sostanzialmente il
carattere e soprattutto senza che venisse assimilato nulla del sistema
mitologico. Dèi dallo stesso nome si possono così rivelare figure
completamente differenti; valga per tutti l’esempio di Ercole, la più
diffusa divinità sannitica, che presso gli Italici mantiene un aspetto
fortemente legato al mondo agricolo, come nume tutelare delle sorgenti,
dell’allevamento, della transumanza. Ad Ercole era dedicato un grande
santuario alle pendici del Matese, presso Campochiaro.
LA VITA QUOTIDIANA
Alla base dell’economia dei Sanniti sono prevalentemente l’agricoltura e
l’allevamento. Si può ragionevolmente pensare che la prima fosse praticata
in maniera estensiva e prevalente nel Sannio occidentale, mentre nelle
zone montane aveva carattere limitato, misto e complementare
all’allevamento.
Nel
territorio dei Pentri e dei Carricini, prevalentemente montuoso, si
praticava l’allevamento di bovini che fornivano peraltro animali utili nei
lavori, di ovocaprini per la lana, il latte ed i suoi derivati, e, più
limitatamente, di suini. Nel Sannio preromano l’allevamento avveniva sia
in forma stanziale che transumante, quest’ultima forse su distanze brevi e
in scala più ridotta di quanto non avvenne successivamente nel Sannio
romanizzato. La rete dei tratturi, esistente da lungo tempo, rappresentò
una base importante per molte scelte insediative.
Attorno all’agricoltura ed alla pastorizia si praticavano anche altre
attività: lavorazione dei tessuti e delle pelli, produzione di oggetti di
uso quotidiano, produzione ceramica. La maggior parte di queste attività
era svolta a livello familiare (tessitura, produzione di attrezzature),
altre nell’ambito dei vici o del pagus (ad es. la
produzione ceramica), altre infine avevano carattere pubblico nell’ambito
della touto; ben documentata è la produzione di laterizi, in un
area ubicata nella piana di Bojano, in una officina statale che
controllava la produzione e ne contraddistingueva i prodotti con un
marchio di fabbrica. Esso recava il nome del meddix tuticus,
magistrato annuale e perciò eponimo, e permetteva così di datare la
produzione stessa. Tra gli oggetti di uso quotidiano molto significativi
si rivelano quelli rinvenuti nell’abitato sannitico di Monte Vairano; in
una delle abitazioni, oltre agli elementi pertinenti alla costruzione
(resti del pavimento in cocciopisto, frammenti di intonaco, embrici,
antefisse, chiodi di varie dimensioni) sono stati rinvenuti vasi da
conservazione, uno dei quali contenente farro e legumi, anfore per il
vino, mortai, brocche, ecc.; i vasi da mensa più comuni erano quelli a
vernice nera, peraltro prodotti sul posto. Da questo sito provengono anche
alcuni oggetti particolarmente significativi per la conoscenza di alcune
attività giornaliere maschili: una roncola, delle cesoie, una zappa, una
pala. Numerosissimi sono i pesi da telaio.
Le scarse testimonianze iconografiche e soprattutto le sepolture
forniscono alcuni dati sugli oggetti relativi all’abbigliamento, e gli
studi sugli scheletri integrano le notizie circa le attività, la
nutrizione, le malattie. L’abbigliamento muta nel tempo; il costume
femminile di epoca arcaica, ricco ed articolato, prevede abbondanza di
ornamenti, tra i quali ricchi pendenti di bronzo, bracciali, fibule; nel
IV secolo la donna indossa sulla tunica prevalentemente solo le fibule,
che talvolta sono in metalli preziosi; rari sono i pendagli, gli anelli ed
i bracciali.
Nell’abbigliamento maschile la corta tunica è fermata alla vita dal
cinturone di bronzo, oggetto fortemente simbolico, portato anche in guerra
unitamente alla corazza a tre dischi metallici in sostituzione dell’antico
pettorale circolare finemente decorato.
Lo studio di alcuni scheletri provenienti da un piccolo nucleo sepolcrale
scavato a Gildone, nel cuore del territorio dei Sanniti Pentri, indica
come età media della popolazione i 40 anni; la presenza di alcune
patologie ricorrenti, quali carie, osteoartriti, lesioni specifiche per
attività lavorative, lascia presupporre una alimentazione povera, con alto
contenuto di carboidrati, e attività molto pesanti sia per le donne che
per gli uomini.
A differenza dei Pentri, che vivevano chiusi nelle loro montagne dediti ad
una stentata agricoltura complementare all’allevamento, le terre della
Frentania, zone di media e bassa collina, erano terre fertili, aperte al
mare e ai rapporti con le zone dell'alto Adriatico e con la Puglia ;
l’itinerario di sviluppo dei Frentani si distaccò ben presto dai
consanguinei Pentri per seguire linee autonome, che portarono a precoci
rapporti con il mondo romano e ad una precoce urbanizzazione. Larino, che
ben presto emerse sugli altri villaggi rurali per divenire il centro più
importante di tutta l’area nonostante non avesse uno sbocco diretto sul
mare, nel IV secolo a.C., all'epoca dell'inizio delle guerre tra Sannio e
Roma, era già configurata come centro urbano. Fu proprio in questo centro
urbano che si andò affermando, già a partire del V secolo a.C., una
aristocrazia terriera che mantenne il potere politico ed economico per
molti secoli; all'inizio della loro ascesa, le classi alte di Larino
amavano mostrare abitudini di vita sociale assimilati dal mondo greco,
praticavano il banchetto ed il simposio ed ostentavano ideali atletici,
scegliendo di farsi seppellire con il rito della cremazione, lontano
ricordo del mondo eroico di Omero, al posto della più comune inumazione.
Quando subentrò, nel I secolo a.C., la dominazione romana, essa trovò a
Larino un mondo non dissimile da quello romano neppure per la lingua.
LA FINE DEI SANNITI
La conclusione delle guerre contro Roma, nel 290 a.C., aveva segnato la
fine delle conquiste territoriali dei Sanniti, che videro anche il confine
del proprio territorio spostato dal corso del Liri a quello del Volturno.
Essi conservarono comunque la propria autonomia amministrativa, divenendo
alleati (socii) dei Romani; i Pentri si mantennero fedeli a
questa condizione anche nelle complesse vicende storiche del III secolo e
soprattutto - unici fra gli Italici - nel corso della guerra annibalica.
Il rispetto dell’alleanza con Roma evitò loro le ritorsioni che dovettero
invece subire altri popoli dopo la conclusione della seconda guerra punica
e permise di godere di un lungo periodo di pace, per tutto il II secolo,
pace che fu grandemente favorevole allo sviluppo dei rapporti commerciali
e in genere dell’economia della nazione. I Frentani, grazie all’anticipato
contatto con Roma, goderono ben prima di tale prosperità, tanto che nel
III secolo a.C. Larino batteva moneta propria.
Questa situazione, per certi versi così prospera, doveva far sentire
sempre più pesantemente le limitazioni di un ruolo che di fatto escludeva
da ogni diritto politico i Sanniti, alleati di Roma ma privi dei vantaggi
legati al possesso della cittadinanza romana.
Le tensioni e il malcontento per questo stato di cose sfociarono infine in
ostilità aperte e nel 91 a.C. ebbe inizio il bellum sociale, la
"guerra dei socii" che reclamavano la parificazione della loro
condizione a quella dei cittadini romani di pieno diritto. Ai Pentri si
unirono Frentani, Irpini, Piceni, Marsi, Peligni, Vestini, Marrucini e
Lucani; la capitale della lega fu stabilita prima a Corfinio, nel
territorio dei Peligni, che nell’occasione prese il nome di Italia; venne
quindi spostata a Bojano e infine ad Isernia.
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La propaganda antiromana sottolineò fortemente, in
ogni modo, il richiamo all’identità etnica dei Sanniti: vennero coniate
delle monete con il nome viteliù, "Italia", che nei tipi
contrappongono il toro sannita alla lupa romana e ripropongono l’immagine
di Comio Castronio, la mitica guida del ver sacrum che aveva
condotto i Sanniti dalla Sabina alla loro nuova terra. La guerra ebbe come
teatro il territorio stesso degli Italici e durò fino all'87 a.C., quando
i Sanniti ottennero la civitas optimo iure, la piena cittadinanza
romana; questo tuttavia non pose fine allo stato di guerra, anche per il
costante invincibile atteggiamento anti italico di Silla; i Sanniti
finirono con l’essere coinvolti nelle guerre civili che allora avevano
inizio con il contrasto tra Mario e Silla. La battaglia di Porta Collina
(1 novembre dell’82 a.C.) segna la conclusione del ciclo storico dei
Sanniti.
Il SANNIO ROMANIZZATO
Ottenuta la cittadinanza romana dopo la guerra sociale, i Sanniti
dovettero subire dapprima la repressione da parte di Silla, quindi i
contraccolpi delle guerre civili che nel I secolo a.C.
devastarono
l’Italia. Quando tornò la pace, con l’impero di Augusto, l’assetto
amministrativo ed insediativo dell’intero territorio era radicalmente
mutato rispetto alla situazione precedente. Se i Sanniti avevano avuto
come unità insediativa il pagus, il distretto territoriale
nell’ambito del quale si distribuivano i diversi “servizi" necessari alla
vita sociale, economica e religiosa, i Romani crearono invece, secondo la
propria organizzazione, una serie di municipia, città capoluogo
delle varie “province”, all’interno dei quali concentrarono tali servizi.
Si potenziò inoltre lo sfruttamento delle campagne più fertili, come la
pianura venafrana e la fascia costiera, creando aziende agricole a
produzione specializzata, alcune delle quali si sovrapposero ad impianti
già esistenti. Come luogo per stabilire i municipia, che erano
principalmente la sede dei magistrati, vennero scelti gli insediamenti più
sviluppati e che meglio si adattavano allo scopo. Essi furono Venafrum (Venafro),
già dal III sec. a.C. inserita nell’amministrazione romana come
praefectura; Aesernia (Isernia), colonia latina dal 263 a.C.;
Bovianum (Bojano), lo capitale dei Pentri; Saepinum (Altilia, presso
Sepino), sorta lungo il tratturo e attrezzata per il passaggio e la sosta
delle greggi, forse sede di impianti per lo lavorazione della lana e già
ben sviluppata negli ultimi secoli della repubblica; Terventum (Trivento),
municipio al quale faceva capo tutto l’Alto Molise; Fagifulae presso
Montagano, centro ancora poco noto; infine Larinum (Larino), la principale
città della zona frentana, ricca e ben organizzata già dal IV secolo a.C.
Questo genere di organizzazione causò gravi danni al territorio, in
particolare alle zone montane; i Sanniti, infatti, con il loro sistema di
insediamenti diffusi, avevano occupato il territorio in maniera integrale
ed omogenea, fin nelle zone apparentemente meno favorevoli e maggiormente
disagiate. L’organizzazione romana, che poneva le città in una posizione
assolutamente centrale, fece sì che queste diventassero l’unico punto di
riferimento per le questioni politiche, amministrative, economiche e
religiose e favorì un processo di spopolamento e di abbandono delle aree
montane più interne. Tale processo, una volta avviato, non ebbe
interruzioni, anzi si aggravò nel corso del tempo: una inversione di
tendenza si comincia a verificare solo nell’alto Medio Evo, quando i
monaci benedettini affrontarono il problema di dare al territorio una
nuova organizzazione e funzionalità, adeguati ai nuovi tempi.
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